La principale difficoltà nella fase d’avvio di una nuova impresa (start-up) è, quasi sempre, la stessa: trovare i finanziamenti per sostenere gli investimenti necessari a concretizzare l’idea imprenditoriale. Le forti capacità tecniche e la stessa idea innovativa proprie di una start-up si scontrano, infatti, con un altrettanto forte bisogno di capitali e con pochi beni da porre come garanzia per ottenere credito.

Il fabbisogno di mezzi finanziari, inoltre, non si esaurisce con il superamento della fase iniziale d’avvio, perché spesso serve liquidità anche per supportare la fase di sviluppo e crescita successiva. Come consulente di management ho affiancato diverse start-up è ho riscontrato che molte non decollano a causa delle difficoltà commerciali, pur avendo un ottimo prodotto. In altre parole, la ricerca di risorse finanziarie necessarie per sostenere gli sforzi per la costruzione della rete di vendita si rivela difficoltosa e non spesso trova successo.

L’analisi che emerge, pertanto, ci porta a pensare che è preferibile concentrarsi sulle strategie di business piuttosto che sulla ricerca di investitori. Questa è anche la lezione che John Mullins, professore associato alla London Business School, propone in un recente articolo pubblicato nella rivista Harvard Business Review. Da un’attenta esamina di casi aziendali egli afferma che, in alcune start-up di successo, il business model è strutturato in modo tale che gli anticipi pagati dai clienti aiutano a finanziare la crescita. In pratica, così come fanno alcuni studi professionali, la chiave è farsi pagare in anticipo per finanziarsi, prima di impiegare risorse su propri prodotti e servizi.

Di fronte ai casi di molte start-up che dedicano troppo tempo alla ricerca di finanziamenti e ne spendono troppo nello sviluppo dei prototipi, Mullins presenta cinque modelli alternativi validi in precisi settori commerciali. Tali modelli sono denominati “Il sensale”, “Su deposito”, “Su abbonamento”, “Standardizza e rivendi” e “Scarsità”.

“Il sensale”: adatto nei contesti nei quali c’è bisogno di un intermediario che colleghi venditori e acquirenti come nel caso di eBay e del social lending Zopa.

“Su deposito”: da usare nei contesti in cui il lavoro si articola nel tempo piuttosto che con una singola transazione. Da segnalare l’esperienza del sito web per le prenotazioni online Expedia.

“Su abbonamento”: valido per business che prevedono la vendita di beni di consumo (verdure biologiche, vitamine ecc.) o servizi d’intrattenimento.

“Standardizza e rivendi”: utilizzabile nei contesti nei quali un servizio o un prodotto su misura per un cliente può essere riadattato e venduto a un gruppo di acquirenti più ampio come nel caso della piattaforma di branded entertainment globale Be On.

“Scarsità”: importante in contesti dalla rapida obsolescenza di prodotti e mode come nel mercato dell’abbigliamento (Zara).

 

Alessandro Braida

Consulente di Management CMC-APCO

 

Di seguito il testo del mio articolo pubblicato su Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia di martedì 9 aprile 2013.

I fatti e le relazioni nella scrittura del business plan

Il business plan, come è noto, è lo strumento con il quale un’impresa descrive un progetto aziendale che intende portare avanti, le modalità di conduzione dello stesso, i tempi previsti per la sua realizzazione e le risorse necessarie.

Anche se il ritmo con cui avviene oggi il cambiamento rende la pianificazione tradizionale, orientata a proiezioni a 3 o 5 anni, praticamente priva di significato, la scrittura di un piano di business è fondamentale per porsi correttamente di fronte a un istituto di credito che deve erogare un finanziamento, a un ente pubblico che deve erogare dei contributi o al management di un’impresa chiamato a decidere sulla destinazione di risorse a importanti investimenti.

Scrivere un business plan richiede esperienza, capacità analitiche e, soprattutto, molta concretezza. Si parte, come è logico, dalla  descrizione dell’azienda: visione, missione, forma giuridica, localizzazione produttiva e distribuzione commerciale. In seguito, si esamina il mercato di riferimento per i propri prodotti e servizi; rispondendo a domande quali “Perché i consumatori dovrebbero comprare i miei prodotti e servizi?” o “Quali sono i miei clienti target?” si delinea il posizionamento strategico dell’azienda. Descritti questi aspetti, si devono prendere in considerazione le scelte legate allo sviluppo operativo del progetto: le tipologie di investimento, i processi tecnologici e produttivi, i rapporti con fornitori e distributori, le risorse umane, economiche e  finanziarie, i tempi e le modalità di controllo ritenute più opportune per seguire i processi attivati.

La riflessione sulla fattibilità economico-finanziaria del progetto conclude il percorso. Essa determina la reale sostenibilità del piano; le strategie sottese, infatti, devono essere raccordate con i volumi di vendita e di profitto raggiungibili al fine di testare la convenienza dell’iniziativa.

È fondamentale sottolineare come alla base di un buon business plan debba esserci la consapevolezza che il documento non ha natura statica ma dinamica: si tratta di una relazione destinata a essere periodicamente rivista. La visione d’impresa e le ipotesi alla base di un business devono essere tradotte in fatti concreti, i quali trovano esistenza fuori dall’impresa ovvero nel modo reale, dove vivono e lavorano i clienti, i fornitori, la concorrenza e, in generale, tutti i portatori d’interesse dell’azienda. Se si vuole scrivere un piano realistico, allora, si devono richiedere e discutere informazioni su ogni componente del proprio modello di business attraverso costanti confronti direttamente con le parti coinvolte. Questa considerazione ci fa capire come la dimensione relazionale sia indispensabile per la scrittura di un buon piano di business.

 Alessandro Braida

Di seguito il mio articolo pubblicato martedì 12 febbraio 2012 da “Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia”.

RISCHIARE IMPARANDO DAGLI ERRORI – L’IMPRENDITORE DI SUCCESSO SI CONFRONTA CON LE IMPERFEZIONI

Johann Gutenberg, l’inventore della stampa a caratteri mobili, nel 1450 costituì una società con il banchiere Johann Fust e con l’incisore Peter Schöffer con l’obiettivo di stampare la “Bibbia a 42 linee” per poi commercializzarne le copie. Fust, che oggi sarebbe identificato con il termine inglese di “business angel”, contribuì con 1.600 fiorini allo sviluppo dell’idea imprenditoriale di Gutenberg. Qualche anno dopo, il banchiere, preoccupato dalla lentezza nell’ottenere le ambite alte remunerazioni dell’investimento, sciolse la società chiedendo a Gutenberg di restituire il prestito. Lo sfortunato inventore tedesco non fu in grado di restituire la somma e fallì.

In un recente articolo pubblicato sul blog del “Harvard Business Review”, vengono riportati alcuni dei più grandi errori imprenditoriali di Steve Jobs, personalità spesso paragonata proprio a Gutenberg per l’impatto mondiale delle innovazioni introdotte attraverso le sue aziende.  Ormai nota è la vicenda dell’allora ventinovenne Jobs che reclutò John Sculley, allora presidente della PepsiCo Incorporation, come CEO (amministratore delegato) della Apple; qualche anno dopo fu proprio Sculley che architettò l’allontanamento di Jobs dalla Apple. Sempre Steve Jobs ebbe grandi difficoltà nel gestire la Pixar e la NeXT computer e, inoltre, lanciò sul mercato alcuni prodotti che si rivelarono fallimentari quali the Apple Lisa, Macintosh TV, the Apple III, the Powermac g4 cube. Fortunatamente questi insuccessi costituirono la base per la realizzazione di prodotti più fortunati come iPod, iPhone, iPad.

Le vicende di Gutenberg e del fondatore della Apple ci fanno capire come l’essere coinvolto in un processo d’innovazione possa significare l’accettazione dell’imperfezione come parte del processo creativo. Solo dagli errori è possibile apprendere quello che può realmente funzionare e quello che è destinato a fallire. Anzi è proprio sostenendo questo processo che un imprenditore, gestendo o avviando un’azienda, assume il rischio d’impresa. Regole definite e assolute per diventare un imprenditore di successo, da questo punto di vista, non esistono. Come ci insegnano gli scienziati cognitivi, impegnandosi in operazioni rischiose e dall’esito incerto si tende a considerare in primo luogo i pericoli derivanti dal perdere i nostri averi e, in subordine, i possibili e ingenti guadagni. Avere la forza, il talento e qualche volta l’incoscienza di andare oltre questo modo di concepire le cose è una prerogativa imprenditoriale che non deve essere compressa da una cultura che condanna eccessivamente il fallimento. Il rischio, infatti, è quello di un rallentamento dell’azione innovativa.

Seguendo questo ragionamento, incentivare le nascenti imprese ad alto tasso d’innovazione (start-up), ovvero attività molto rischiose e con elevati tassi di insuccesso, attraverso la leva fiscale può rivelarsi inefficace. Meccanismi assicurativi e normative concorsuali che evitino il fallimento (o ne attenuino le conseguenze), possono invece svolgere un ruolo decisivo.

Il mio contributo pubblicato su Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia del 10 dicembre 2012

Anche di fronte a un exploit importante dell’economia italiana nel corso del 2013, gli sviluppi recessivi della crisi non si esauriranno nel breve termine. Inevitabile, pertanto, un aumento del rischio d’insolvenza da parte delle aziende. Questo è ciò emerge dalla recente indagine del Cerved sul rischio d’insolvenza delle società italiane realizzata attraverso l’utilizzo del Cegri (Cerved group risk index), un indice che oscilla da 1 (minimo rischio) a 100 (massimo rischio).

L’indagine si sviluppa presentando alcuni scenari economici futuri utilizzabili per stimare gli effetti che una ripresa dell’economia potrebbe avere sul rischio delle aziende italiane.

In un primo scenario di base si prevede un calo anche nel 2013 del Pil (-0,6%), per registrare solo nel 2014 un tasso di crescita positivo dell’economia (+0,5%). Il Cegri toccherà un massimo di 72,2 punti nel 2012 per poi aumentare di un decimo di punto nell’anno successivo (72,3 nel 2013) diminuendo leggermente solo nel 2014. La debolezza del contesto macroeconomico peserà sui bilanci delle aziende: i ricavi si contrarranno del 1,3% nel 2012, mentre nel 2013 non terranno il passo dell’inflazione. Inevitabilmente, quindi, le società faticheranno a sostenere gli oneri finanziari e i debiti accumulati.

In un secondo scenario si ipotizza una ripresa dell’economia attraverso le esportazioni e un auspicato successo delle misure anti-spread che porterebbero il differenziale con i titoli tedeschi a circa 200 punti nel 2014. Il Pil salirebbe del 0,8% nel 2013 per accelerare all’1,4% nel 2014. In questo caso, dopo il massimo del 2012 a 71,9 punti, il Cegri diminuirebbe nel 2013 solo marginalmente, attestandosi al valore di 71,8.

Infine, in un terzo scenario di ritorno alla crescita di forte intensità il Cerved ipotizza un aumento del Pil del 1,8% nel 2013 e addirittura del 3,5 % nell’anno successivo. In questo caso, il Cegri calerebbe a quota 70,9 punti nel 2013, mentre il risparmio in termini di minori sofferenze per le banche ammonterebbe a 7,7 miliardi di euro (tra la fine del 2012 e del 2014), con 4.500 casi di default in meno.

Questa analisi mette in luce che anche in caso di una ripresa ben più poderosa di quella prevista, i tassi di rischio rimarrebbero alla fine del 2014 ancora a livelli ben superiori rispetto a quelli pre-crisi registrati nel 2007. A tal proposito, Guido Romano, responsabile dell’ufficio studi del Cerved Group, ha dichiarato che “nello scenario più ottimistico, il ritorno a una crescita sostenuto dell’economia italiana favorirebbe soprattutto le imprese che operano con l’estero e il rischio si ridurrebbe soprattutto nei settori più sensibili alle esportazioni: si prevede un calo nella filiera dell’auto, nella siderurgia e nella meccanica quando invece i settori meno sensibili a una ripresa economica sarebbero il largo consumo, i servizi non finanziari e la produzione di beni intermedi. La crisi dei bilanci aumenta la forbice tra le imprese: chi è strutturato andrà progressivamente sempre meglio di chi è piccolo e in difficoltà”.

alessandro.braida@coveco.it

Il mio articolo per il numero di Friulinews Paper pubblicato a novembre.

Friulinews Paper

Per vedere i filmati vai al canale youtube: covecofilm

Per scaricare il PDF: Friulinews Paper

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ctlyYbiaUSc&w=640&h=360]

L’intervento del gruppo di Ingegneria Civile “Costruiamo il domani!“, composto da Elisa Pelizzo, Andrea Boscaro e Giacomo Zampollo all’Aule Camp di Punto di Incontro manifestazione fieristica di Pordenone svoltasi il 9 novembre 2012.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=CNB0KZkak8U&w=640&h=360]

Il contributo del gruppo “Esperimentiamoci” in occasione dell’evento “Di futuro ce n’è tanto” alla fiera di Pordenone il 9 novembre 2012.

Il contributo del gruppo dei laureandi in economia “I padri fondatori” che parlano di Europa in occasione dell’evento “Di futuro ce n’è tanto” alla fiera di Pordenone il 9 novembre 2012.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1jqadtWz5Vg&w=640&h=360]

L’intervento del gruppo di studenti informatici “The It Crowd” ad AULE Camp, durante la fiera di Pordenone dedicata agli studenti e al lavoro.

E questo è il materiale che hanno presentato.

PDF presentazione

Di seguito il mio articolo pubblicato su realtà industriale di Confindustria Udine di questo mese

L’avvio di una nuova attività imprenditoriale rappresenta una sfida avvincente e allo stesso tempo di elevata complessità. Richiede l’elaborazione di una chiara strategia che con un’attenta disamina faccia emergere l’idea innovativa ma anche i pericoli, le opportunità, i rischi e le criticità da gestire nella fase d’avvio e in quella dello sviluppo del business. Richiede la scelta della forma giuridica che l’impresa dovrà assumere e del modello organizzativo che dovrà adottare per la sua governance. Esige, soprattutto, una realistica analisi dell’ambiente competitivo per posizionare correttamente l’impresa sui mercati. Una ricerca di mercato fondata sul reperimento di dati e di informazioni presso siti web, associazioni imprenditoriali, camere di commercio, enti di ricerca e sportelli europei consente una migliore comprensione dell’evoluzione dei bisogni dei potenziali clienti; ciò significa evitare di basare le proprie speranze di successo su percezioni personali troppo spesso considerate indubitabili oppure sulle proprie capacità tecniche, produttive, organizzative e commerciali.

Le valutazioni strategiche devono necessariamente essere formalizzate con strumenti di progettazione e presentazione come gli elevator pitch (una chiara e sintetica presentazione del progetto con lo scopo di convincere gli investitori in un brevissimo lasso di tempo) e come il business plan, documento fondamentale sia nella fase di avvio d’impresa sia in seguito per la ricerca di finanziamenti. Decisiva, infatti, per un progetto imprenditoriale, è la valutazione razionale delle dinamiche finanziarie a supporto delle diverse fasi che attraversa l’impresa durante il suo avvio:

– la fase iniziale denominata “seed”, durante la quale non è necessario un fabbisogno finanziario troppo elevato;

– la fase successiva di “start-up”, nella quale l’esigenza di fonti finanziarie cresce per sostenere la probabile assenza di ricavi;

– la fase “early growth”, durante la quale la veloce espansione dei ricavi produce un maggior autofinanziamento che continua, comunque, a non essere sufficiente per sostenere l’elevato fabbisogno finanziario connesso all’esigenza di sviluppare la rete distributiva sul mercato, di sostenere gli investimenti in capacità produttiva e al rapido sviluppo del capitale circolante;

– infine, la fase “sustained growth” nella quale il fabbisogno finanziario è proporzionale alla crescita del fatturato.

Durante questo percorso, oltre agli strumenti bancari, ai finanziamenti agevolati (regionali, nazionali e comunitarie), il finanziamento attraverso il capitale di rischio rappresenta spesso la chiave per il successo del progetto: incubatori, business angel e venture capitalist sono attori chiamati a ricoprire un ruolo indispensabile. Se grandi aziende come, ad esempio, Telecom, Vodafone, Intesa San Paolo hanno da tempo avviato iniziative per le start-up, anche associazioni di business angel come IBAN (Italian Business Angel Network) e come IAG (Italian Angels for Growth) rivestono un ruolo di primaria importanza.

La leva finanziaria è indispensabile. Non va dimenticato, tuttavia, che esiste anche un contesto sociale fatto di enti, associazioni, centri di aggregazione e sistemi per fare network che ruotano intorno al mondo delle nuove imprese tecnologiche. In particolare, si sono ormai diffusi luoghi, reali e virtuali, che mettono a disposizione postazioni di lavoro condivise in ambienti vivaci e ricchi di stimoli. Lo scopo è quello di favorire le sinergie e di incrementare lo scambio di idee in community di professionisti e di aziende che, talvolta, si prestano a un servizio di consulenza personalizzato. Situazioni ben avviate sono la rete dei “Coworking”, che si stanno diffondendo in tutta Italia, e la rete mondiale di spazi fisici e di persone che si occupano di nuova imprenditorialità, d’innovazione e d’impresa sociale denominata “The Hub” che ha una sede a Trieste.

Anche il Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Udine si sta impegnando concretamente per le start-up. È in fase di progettazione, infatti, un’iniziativa denominata “Start & Go” rivolta a micro, piccole e medie imprese gestite da giovani imprenditori tra i 18 e i 40 anni che intendono sviluppare progetti ad alto contenuto innovativo, tecnologico e di conoscenza di prodotti, servizi, processi e modelli di gestione migliorativi rispetto al panorama esistente. Il progetto vuole sostenere la crescita delle nuove iniziative imprenditoriali particolarmente innovative e prevede anche un bando di finanziamento che aprirà entro fine anno. Il Gruppo sta lavorando anche per ottenere finanziamenti bancari a tasso agevolato e si prevedono azioni di sostegno attraverso consulenze professionali, premi in denaro, insediamento presso incubatori, promozione dell’iniziativa imprenditoriale, visibilità sul territorio, formazione e tutoraggio.

Alessandro Braida

Gruppo Giovani Imprenditori Confindustria Udine