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1234041_10151619103648931_293268418_nDi seguito il mio contributo per Il Quotidiano FVG del 22 ottobre 2013.

Il contratto di rete e la necessità di gestire le numerose relazioni

Come è noto, la piccola dimensione delle imprese italiane spesso genera inefficienza a causa del costo dell’elevato numero di relazioni e di transazioni da gestire all’interno delle filiere, siano esse orizzontali o verticali. Inoltre, in un’economia dove il vantaggio competitivo per le imprese dei paesi avanzati si basa sulla conoscenza e sulla smaterializzazione del valore e dove si vendono idee, creatività e servizi (e non solo prodotti materiali) vanno favoriti i percorsi di condivisione delle informazioni commerciali, la ricerca pre-competitiva, le collaborazioni allo sviluppo di prodotti e servizi innovativi e le attività di ricerca e sviluppo svolte in comune.
Situazioni di mancanza di fiducia tra imprese e tra queste e i loro interlocutori (banche, clienti, fornitori, enti e istituzioni pubbliche) non sono, quindi, più sostenibili; assume rilievo, invece, la capacità di agire in modo coordinato, elevando la propensione a dialogare, a negoziare e a stipulare accordi reciproci profittevoli. Fare rete diventa un efficace antidoto contro la crisi perché permette di aumentare il fatturato, di sfruttare economie di scala e, talvolta, di allentare la stretta del credito bancario. Per questa ragione cresce l’attenzione riposta sugli strumenti quali i consorzi, le ATI (associazioni temporanee d’impresa) e il contratto di rete sia da parte delle istituzioni come la Regione, le Camere di Commercio, e le associazioni di imprenditori sia delle società di servizi e dei consulenti legali, fiscali e manageriali.
I progetti di aggregazione, tuttavia, presentano anche delle criticità perché impongono una modifica nell’approccio culturale esistente che rimane ancora avverso ai raggruppamenti. Considerato sotto questo aspetto, il contratto di rete è uno strumento giuridico che consente di perseguire strategie di aggregazione tra imprese senza il vincolo di costituire un nuovo soggetto e preservando l’identità delle singole aziende aderenti; esso, infatti, permette ai partecipanti di scegliere in autonomia la governance e le altre caratteristiche della rete e, a condizione che ci si basi su regole di collaborazione predefinite ed economicamente convenienti, rende possibili aggregazioni fondate su vincoli deboli fra i partner e sulla possibilità di decidere con pariteticità.
Questo strumento giuridico deve essere utilizzato in maniera appropriata poiché sposta il focus decisionale e operativo dalle singole imprese alle loro aggregazioni. Esso, di conseguenza, richiede un’attività di coordinamento a cura del manager di rete (alliance manager), figura che dovrà possedere le competenze per governare le relazioni tra tutti i soggetti della rete, armonizzare i diversi interessi in campo, progettare lo sviluppo commerciale della rete, elaborare le strategie, i piani e le iniziative dell’organizzazione, curare l’analisi dei bisogni dei soci e, in definitiva, promuovere il conseguimento degli obiettivi imprenditoriali degli associati.

Alessandro Braida

Di seguito il testo del mio articolo pubblicato su Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia di martedì 9 aprile 2013.

I fatti e le relazioni nella scrittura del business plan

Il business plan, come è noto, è lo strumento con il quale un’impresa descrive un progetto aziendale che intende portare avanti, le modalità di conduzione dello stesso, i tempi previsti per la sua realizzazione e le risorse necessarie.

Anche se il ritmo con cui avviene oggi il cambiamento rende la pianificazione tradizionale, orientata a proiezioni a 3 o 5 anni, praticamente priva di significato, la scrittura di un piano di business è fondamentale per porsi correttamente di fronte a un istituto di credito che deve erogare un finanziamento, a un ente pubblico che deve erogare dei contributi o al management di un’impresa chiamato a decidere sulla destinazione di risorse a importanti investimenti.

Scrivere un business plan richiede esperienza, capacità analitiche e, soprattutto, molta concretezza. Si parte, come è logico, dalla  descrizione dell’azienda: visione, missione, forma giuridica, localizzazione produttiva e distribuzione commerciale. In seguito, si esamina il mercato di riferimento per i propri prodotti e servizi; rispondendo a domande quali “Perché i consumatori dovrebbero comprare i miei prodotti e servizi?” o “Quali sono i miei clienti target?” si delinea il posizionamento strategico dell’azienda. Descritti questi aspetti, si devono prendere in considerazione le scelte legate allo sviluppo operativo del progetto: le tipologie di investimento, i processi tecnologici e produttivi, i rapporti con fornitori e distributori, le risorse umane, economiche e  finanziarie, i tempi e le modalità di controllo ritenute più opportune per seguire i processi attivati.

La riflessione sulla fattibilità economico-finanziaria del progetto conclude il percorso. Essa determina la reale sostenibilità del piano; le strategie sottese, infatti, devono essere raccordate con i volumi di vendita e di profitto raggiungibili al fine di testare la convenienza dell’iniziativa.

È fondamentale sottolineare come alla base di un buon business plan debba esserci la consapevolezza che il documento non ha natura statica ma dinamica: si tratta di una relazione destinata a essere periodicamente rivista. La visione d’impresa e le ipotesi alla base di un business devono essere tradotte in fatti concreti, i quali trovano esistenza fuori dall’impresa ovvero nel modo reale, dove vivono e lavorano i clienti, i fornitori, la concorrenza e, in generale, tutti i portatori d’interesse dell’azienda. Se si vuole scrivere un piano realistico, allora, si devono richiedere e discutere informazioni su ogni componente del proprio modello di business attraverso costanti confronti direttamente con le parti coinvolte. Questa considerazione ci fa capire come la dimensione relazionale sia indispensabile per la scrittura di un buon piano di business.

 Alessandro Braida

Il mio contributo pubblicato su Il Quotidiano del Friuli Venezia Giulia del 10 dicembre 2012

Anche di fronte a un exploit importante dell’economia italiana nel corso del 2013, gli sviluppi recessivi della crisi non si esauriranno nel breve termine. Inevitabile, pertanto, un aumento del rischio d’insolvenza da parte delle aziende. Questo è ciò emerge dalla recente indagine del Cerved sul rischio d’insolvenza delle società italiane realizzata attraverso l’utilizzo del Cegri (Cerved group risk index), un indice che oscilla da 1 (minimo rischio) a 100 (massimo rischio).

L’indagine si sviluppa presentando alcuni scenari economici futuri utilizzabili per stimare gli effetti che una ripresa dell’economia potrebbe avere sul rischio delle aziende italiane.

In un primo scenario di base si prevede un calo anche nel 2013 del Pil (-0,6%), per registrare solo nel 2014 un tasso di crescita positivo dell’economia (+0,5%). Il Cegri toccherà un massimo di 72,2 punti nel 2012 per poi aumentare di un decimo di punto nell’anno successivo (72,3 nel 2013) diminuendo leggermente solo nel 2014. La debolezza del contesto macroeconomico peserà sui bilanci delle aziende: i ricavi si contrarranno del 1,3% nel 2012, mentre nel 2013 non terranno il passo dell’inflazione. Inevitabilmente, quindi, le società faticheranno a sostenere gli oneri finanziari e i debiti accumulati.

In un secondo scenario si ipotizza una ripresa dell’economia attraverso le esportazioni e un auspicato successo delle misure anti-spread che porterebbero il differenziale con i titoli tedeschi a circa 200 punti nel 2014. Il Pil salirebbe del 0,8% nel 2013 per accelerare all’1,4% nel 2014. In questo caso, dopo il massimo del 2012 a 71,9 punti, il Cegri diminuirebbe nel 2013 solo marginalmente, attestandosi al valore di 71,8.

Infine, in un terzo scenario di ritorno alla crescita di forte intensità il Cerved ipotizza un aumento del Pil del 1,8% nel 2013 e addirittura del 3,5 % nell’anno successivo. In questo caso, il Cegri calerebbe a quota 70,9 punti nel 2013, mentre il risparmio in termini di minori sofferenze per le banche ammonterebbe a 7,7 miliardi di euro (tra la fine del 2012 e del 2014), con 4.500 casi di default in meno.

Questa analisi mette in luce che anche in caso di una ripresa ben più poderosa di quella prevista, i tassi di rischio rimarrebbero alla fine del 2014 ancora a livelli ben superiori rispetto a quelli pre-crisi registrati nel 2007. A tal proposito, Guido Romano, responsabile dell’ufficio studi del Cerved Group, ha dichiarato che “nello scenario più ottimistico, il ritorno a una crescita sostenuto dell’economia italiana favorirebbe soprattutto le imprese che operano con l’estero e il rischio si ridurrebbe soprattutto nei settori più sensibili alle esportazioni: si prevede un calo nella filiera dell’auto, nella siderurgia e nella meccanica quando invece i settori meno sensibili a una ripresa economica sarebbero il largo consumo, i servizi non finanziari e la produzione di beni intermedi. La crisi dei bilanci aumenta la forbice tra le imprese: chi è strutturato andrà progressivamente sempre meglio di chi è piccolo e in difficoltà”.

alessandro.braida@coveco.it

Mio contributo pubblicato su Il Quotidiano Fvg del 10 luglio 2012: i conflitti in azienda non sono sempre negativi.

Alcune statistiche concernenti il mondo del lavoro e la famiglia permettono interessanti riflessioni sulla realtà delle nostre aziende. Nel 2011, in Italia, il numero di lavoratori che ha deciso di ricorrere contro le imprese attraverso l’assistenza legale di un sindacato si è attestato a ben 320.000 unità. Se guardiamo al Friuli Venezia Giulia la tendenza alla disgregazione familiare, con 248 divorzi ogni 100.000 abitanti, contro una media italiana di 182, è particolarmente elevata.

È evidente che le persone faticano a scegliersi nel modo corretto e, in ogni caso, stentano nel generare relazioni capaci di assorbire periodi di conflitto. Anzi, la conflittualità è intesa quasi sempre in termini negativi e viene risolta con la tendenza all’allontanamento, più o meno coatto.

Nei dibattiti sul tema della leadership in azienda è ricorrente il tema della personalità dei manager e della necessità di ricorrere a dirigenti in grado di proporre e discutere scelte anche in controtendenza rispetto alla tradizionale gestione dell’impresa. In un contesto sociale nel quale il conflitto è considerato in termini negativi e concludenti, come accettare un collaboratore con gli “attributi” in azienda?

Nelle imprese organizzate gerarchicamente e caratterizzate dalla presenza di imprenditori carismatici con delle visioni chiare, prevalgono dirigenti luogotenenti. Ciò può essere efficace se l’imprenditore è particolarmente brillante nella direzione, tuttavia, al crescere delle dimensioni aziendali e della conseguente complessità, la necessità di controllo aumenta e si possono generare delle inefficienze dovute all’autoreferenzialità, a collaboratori poco proattivi e alla difficoltà nel far rispettare le direttive al personale.

Una via d’uscita è rappresentata dalla possibilità di introdurre delle situazioni generative: brainstorming (con astensioni di giudizio e apporti aperti di idee), lavori di gruppo coordinati da manager capaci di stimolare le persone e gruppi di discussione per il miglioramento di processi e di metodi di lavoro. Indispensabile, a questo punto, lo strumento della delega: ciò rappresenta un’attribuzione di potere decisionale e operativo in un ambito ben definito. Significa anche introdurre degli obiettivi e dei sistemi di valutazione delle performance aziendali e del personale.

In altre imprese, frequentemente in quelle in fase d’avvio, l’imprenditore, concentrato sul suo prodotto, rischia di sottovalutare l’esigenza di un’organizzazione ben strutturata e coerentemente diretta. In questo caso, la presenza di uno o più manager che, oltre a tradurre l’idea in strategia e in piani di azione produttivi e commerciali, siano in grado di negoziare con l’imprenditore e con il personale l’introduzione di obiettivi, compiti, regole e assetti organizzativi più razionali può rivelarsi una chiave vincente. Su cosa puntare? Comunicazione interna, procedure snelle e condivise, poche regole efficaci e certe, capacità e strumenti di valutazione delle performance.

La discussione è aperta al seguente indirizzo web: coveco.wordpress.com.